Oltre le sbarre

La protagonista di questa storia di volontariato è Cristina Mantellini, volontaria Caritas Rimini e arteterapeuta in formazione, che al termine del proprio percorso di studi ha condotto in carcere un ciclo di laboratori di arteterapia, progetto curato insieme a Rossella Placuzzi, anche lei volontaria di Caritas e arteterapeuta. I laboratori si sono svolti nella saletta ricreativa delle sezioni detentive della Casa Circondariale, in collaborazione con la Direzione d’Istituto e l’Area Educativa Penitenziaria. Cristina ha parlato di questo percorso facendo capire come sia stato fondamentale sia per lei sia per i detenuti, liberandoli per un attimo dall’oppressione del penitenziario e dimostrando che c’è un ricco mondo interiore in ognuno di loro.
Come si è svolto il laboratorio di arteterapia in carcere? Perché è stato importante?
Insieme ad altre volontarie e in generale a chi cura l’area educativa del plesso abbiamo deciso di far partire questo progetto su misura per i reclusi, un’esperienza incentrata sul senso di responsabilità e sulle opportunità di cambiamento, dando particolare rilievo ed importanza al tempo di detenzione, che è vissuto spesso passivamente come un momento sospeso, evidenziando l’importanza di darsi nuove opportunità, su cui lavorare giorno per giorno, per una vita futura nella legalità; l’obiettivo è stato, infatti, quello di dare una svolta alla vita dei carcerati, portandoli a mettere in discussione se stessi per arrivare a voltare pagina.
Questi laboratori hanno avuto due cicli: il primo è durato tutto il mese di luglio 2024, una volta a settimana e si è svolto nella saletta ricreativa, una zona ad uso esclusivo dei detenuti, che è stata riorganizzata appositamente: abbiamo, ad esempio, utilizzato il tavolo da ping-pong come punto d’appoggio per esporre le opere. Il secondo ciclo di lezioni invece si è svolto a ottobre per terminare a dicembre, anche questo con un riscontro molto positivo. I corsi si svolgevano di sera dalle 6 alle 7 e mezza, i partecipanti erano almeno 10-15 e ci siamo poste subito in ascolto dei loro bisogni e delle loro esigenze. È stata un’esperienza molto interessante perché il loro coinvolgimento è stato evidente e ha donato contributi preziosi; il laboratorio ci ha anche aiutato a comprendere meglio i detenuti osservando il loro modo di far parte di un gruppo e di interagire con gli altri.
Come è stata accolta la proposta e quali cambiamenti ha generato?
Quest’iniziativa è stata recepita come una possibilità di “respirare”, evadendo per un’oretta dalla pesantezza della reclusione; è stato un momento di distacco dalla routine giornaliera, in cui i partecipanti hanno espresso tutte le loro sensazioni ed emozioni. Grazie a questo laboratorio e al gruppo sono venute fuori molte opportunità di socializzazione e di condivisione. I detenuti hanno lavorato molto su sé stessi durante questo progetto: sono emerse, ad esempio, qualità positive che non sapevano di possedere.
Come li ha guidati l’arte in questo tentativo di rientrare in connessione con sé stessi?
Disegnano nuvole e cieli dove volare, ferite con graffi a matita, un buio dove non si scorge la luce, mari e oceani in tempesta, ricordi di traversate pericolose… In queste opere hanno raccontato emozioni, ricordi e sogni… Terminato ogni laboratorio tornavano in cella, con gli occhi più vispi, con un briciolo di speranza in più e la consapevolezza di non essere così soli.
Solitamente i reclusi sono dipinti dalla società con caratteristiche estremamente negative. Com’è riuscita quest’ esperienza, invece, a far emergere quanto di positivo c’è in loro?
Con Rossella, abbiamo cercato di adottare un approccio molto umano, puntando sull’accoglienza e sul rispetto per le emozioni, le sensazioni e il loro vissuto in generale. Ognuno ha avuto la possibilità di esprimersi liberamente. Penso che sia stato un momento di scambio reciproco, in cui si è sviluppata una grande fiducia tra loro e noi operatori: il primo passo per una collaborazione proficua. Il nostro lavoro gli ha dato delle risorse da poter utilizzare sia nel contesto del carcere sia in un futuro: molti si sentivano come “amputati” e qui hanno avuto finalmente la loro occasione di rinascita, acquisendo la consapevolezza di poter costruire qualcosa di nuovo, sia da soli sia insieme al gruppo.
Qual è il valore pedagogico, riabilitativo ed educativo del progetto?
Un lavoro di questo tipo può contribuire alla rieducazione e reintegrazione della persona detenuta, stimolando la ricostruzione dell’identità e il superamento dello stigma sociale e favorendo il recupero del senso di responsabilità verso sé stessi, gli altri e la società.
Qual è stata la relazione instaurata con voi volontari?
Sicuramente una caratteristica fondamentale su cui è basato il progetto è il rispetto reciproco. È appagante vedere in loro la voglia di ricostruirsi, hanno però bisogno in questo di essere incoraggiati da noi volontari, i primi disposti ad accoglierli con positività e a riconoscere le loro possibilità, al di là del momento che stanno vivendo. In sostanza, quando si pensa di aver toccato il fondo c’è sempre l’opportunità di risalire.
Può raccontarci qualche aneddoto del laboratorio?
Mi ha colpito molto l’accoglienza da parte del gruppo e la capacità di ogni partecipante di donarsi agli altri: ciascuno di loro ha condiviso un’immagine o una frase con i compagni e l’empatia nata da questo gesto è stata per me molto toccante. Un altro aspetto rilevante è stata la cura che hanno avuto per il luogo e gli spazi dove si sono svolte le attività: dopo quest’esperienza gli ospiti del carcere hanno compreso l’importanza dell’ambiente e hanno collaborato sia con i compagni sia con gli operatori a riordinare e a rendere fruibile lo spazio per il laboratorio. Questa loro disponibilità mi è rimasta impressa, gratificandomi, perché nel momento in cui un detenuto si rende utile, si sente capace e vuole mettere le sue competenze al servizio degli altri.
Com’è cambiata lei e che cosa le ha lasciato quest’esperienza?
Per me e per la mia collega è stata un’esperienza molto arricchente, soprattutto a livello umano, perché lavorando con i carcerati abbiamo compreso che in loro c’è tanta sofferenza ma anche una profonda voglia di riscatto e tanta speranza. Sono stati bei momenti di condivisione che spero si possano ripetere. A mio parere l’arteterapia può essere uno strumento validissimo nelle nostre carceri: abbiamo condiviso quanto prodotto con un’equipe di psicologi e di mediatori culturali perché lo abbiamo trovato estremamente interessante sia a livello artistico sia a livello di evoluzione psicologica degli autori. La reclusione li porta a un ritiro in sé stessi allontanandosi dal mondo esterno e questi laboratori possono rappresentare una chiave per aiutarli ad aprirsi e comunicare le loro emozioni.
di Laura Ciccioni