Nuove prospettive per il volontariato
‘Sono tempi difficili per il volontariato’ è un sentire che si respira trasversalmente nel mondo dell’associazionismo che spesso ha la sensazione di essere schiacciato dalla burocrazia e di non intercettare la sua utenza. Su questo si sta interrogando anche VolontaRomagna, Centro di Servizio per il Volontariato (Cvs) della Romagna, in un percorso di confronto con il Terzo settore. Gino Mazzoli, esperto di welfare e processi partecipativi, ci offre alcuni spunti per una riflessione che sfocerà nell’Assemblea soci del Csv, in programma a Ravenna il 16 novembre, dove sarà presente come relatore.
Cambia la società, cambia il volontariato, come?
La scena che come comunità abbiamo di fronte (specie dopo la pandemia) è di un numero crescente di persone spaventate, depresse, disperate e risentite verso le istituzioni (considerate come responsabili di questa situazione), deluse da una narrazione collettiva centrata sull’idea di un progresso illimitato che si è rivelato impossibile. Il clima dominante iper-veloce, bulimico e iper-performante ha prodotto una moltitudine di nuovi poveri nel ceto medio (le stime oscillano tra il 30% e il 60% della popolazione che fatica ad arrivare a fine mese), entrati in difficoltà per sofferenze esistenziali legate ai ritmi di vita e a criticità nella gestione delle relazioni affettive, con conseguente carico di problematiche psicologiche ed evaporazione di reti sociali e familiari che producono ricadute anche sul piano economico. Qui è dove si trova ad agire il volontariato. Le reti sociali ci sono, ma già prima del covid si stavano sbriciolando, perché in una società che va ai 200 all’ora è difficile stare al passo.
In questo contesto come si deve porre il volontariato?
La strategia di fondo, che dovrebbe orientare l’azione dei diversi attori della comunità e dei servizi, è avvicinare queste persone depresse, disperate e risentite non con dei discorsi, ma con un fare utile che funzioni da dispositivo per generare fiducia negli altri e nel futuro, come premessa per rinforzare la capacità di uscire da situazioni di difficoltà e creare disponibilità a collaborare a progetti comuni. Mi soffermo su due punti chiave. Il primo è allestire oggetti doppiofondo in grado di funzionare a livello manifesto e implicito.
Può fare un esempio?
Se, invece di fare uno ‘spiegone’, dipingo delle panchine di un parco con le firme dei ragazzini che le hanno rimesse a nuovo insieme ai genitori, agli insegnanti, alle associazioni del quartiere e ai richiedenti asilo del centro di accoglienza, sto ri-costruendo legami sociali e fiducia senza esplicitarlo: il prodotto ‘ricostruzione di legami fiduciari’ è troppo complesso, ansiogeno e poco comprensibile d’acchito per venire ‘acquistato’, mentre il prodotto ‘sistemazione delle panchine del parco’ è visibile, tangibile, comprensibile e accettabile. È questa l’arte di costruire oggetti doppio fondo: un oggetto manifesto noto e rassicurante veicola in modo implicito un contenuto innovativo non immediatamente comprensibile sul piano logico discorsivo.
Il secondo?
Ingaggiare figure informali in grado di svolgere un ruolo di perno (pivot) nel nuovo lavoro di comunità in quanto, nello svolgimento quotidiano della loro attività professionale, gestiscono una quantità ragguardevole di interazioni con la gente comune. Mi riferisco a baristi, vigili, pediatri, infermieri… Costruire un’alleanza con queste persone consente di avere sensori in grado di monitorare ciò che si muove nella comunità, ma anche operatori de facto che, senza aumentare il loro carico di lavoro possono svolgere un’opera di primo screening e gestione leggera. Le parrucchiere spesso, mentre lavano i capelli, raccolgono anche confidenze importanti per esempio su episodi di violenza familiare, si potrebbe quindi consegnare loro il numero del centro antiviolenza più vicino.
Oggetti doppiofondo e pivot sono due dispositivi chiave per svoltare come sistema dei servizi nella gestione delle diverse gradazioni di povertà: non sono attività aggiuntive, ma ‘casse espansive’ di azioni che si presentano con un’altra veste e che devono essere gestite da altri (i pivot e il terzo settore). I servizi sociali (che nel nord Italia sono calibrati per un’utenza di poveri tra il 2% e il 5%) non possono gestire improvvisamente il 30% della popolazione.
In sostanza: se si immagina che i servizi debbano risolvere e assumere tutti i problemi, la partita è impossibile per insufficienza di risorse; se invece si immagina che il compito dei servizi sia aiutare la comunità ad appropriarsi dei problemi che l’attraversano, la situazione diventa più gestibile.
È questo che intende quando parla di lavoro di comunità?
La società democratica si è sempre retta su minoranze attive e, in tempi di maggiore quiete sociale, queste sono sufficienti: in un contesto meno mobile e meno sofferente il ponte del terzo settore ha rappresentato un dispositivo robusto e credibile.
Oggi, sofferenza e incertezza hanno prodotto la mobilitazione di più persone rispetto a vent’anni fa; una mobilitazione ‘contro’, rabbiosa, risentita. Il terzo settore (che, beninteso, non ha fatto nulla di male) non è più sufficiente per reggere l’urto di questa evaporazione dei legami sociali e del risentimento verso le istituzioni e lo spazio pubblico.
Il lavoro di comunità è dunque un allestimento complesso che coinvolge interlocutori formali e informali, in contesti mobili, non confinabili nei consueti tavoli: è re-includere una maggioranza di cittadini in esodo dalla cittadinanza e connettere isole di solidarietà perimetrate. È un’attenzione complessiva, un ‘file mentale’ sempre aperto a cogliere/attivare opportunità: è ‘una vita da surfisti’, ma forse era illusoria la precedente aspettativa pianificatoria. Non si tratta più di chiedere al barista di ‘dare un’occhiata’ a un paziente psichiatrico, ma di avere attenzioni verso i nuovi vulnerabili, per capire quale situazione famigliare hanno alle spalle.
In una società così mutata, che funzione hanno i Centri di Servizio?
Sono i Csv che portano all’interno del volontariato la vision e la competenza tecnica: ricuciono tutti i pezzi del progetto in modo che i volontari possano compararli e appassionarcisi, portando il valore aggiunto della complessità che tante piccole azioni insieme costruiscono. Questo aumenta la visibilità ma anche il consenso, perché si percepisce immediatamente l’utilità di quanto si fa all’interno di una visione più ampia. L’utile è la porta per costruire relazione; la relazione è opportunità per costruire fiducia e dunque maggiore significato all’esistenza, maggiore disponibilità a mettersi in gioco in progettualità comunitarie. È importante avere presente questa sequenza quando si bussa alla porta dei cittadini per chiedere loro di partecipare.