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Prima o poi ti porto in carcere!

20 Dic 2019

Silvia Sanchini racconta la sue esperienza nel carcere di Rimini, dopo un pomeriggio trascorso insieme ai detenuti grazie al progetto “Caffè corretto” dell’associazione Madonna della Carità, un gruppo di parola dedicato ai detenuti che si svolge ogni martedì a Rimini.

Da un po’ di tempo Viola [responsabile del progetto] me lo diceva e, anche se poteva suonare come una minaccia, per me era un auspicio.

Il Carcere di Rimini, per tutti i “Casetti”, ospita 163 persone, 47 uomini in più di quelli che potrebbe accogliere.
Ha evidenziato Ilaria Pruccoli, ex Garante dei detenuti di Rimini, nella sua ultima relazione a marzo 2019: “Ciò che risulta incomprensibile, incoerente, è che a tale aumento della popolazione carceraria, non corrisponde un aumento dei reati in Italia”.

C’è chi desidera sedere nei tavoli che contano e occupare posizioni di potere, io desideravo fortemente fare un’esperienza nel carcere con i detenuti adulti.
Mi sono a lungo chiesta il perché di questa attesa.
Perché provassi un’emozione così forte, quasi un batticuore da primo appuntamento.
Credo, citando David Grossman, che sia la ferita ad attrarmi e che cercassi un coltello con il quale frugare dentro me stessa.

Non ho una foto che racconti l’incontro, ma ho impressi nitidi nella mente quindici volti, quindici voci, quindici storie.
Loro hanno scelto di incontrarmi in un luogo dove a nessuno fa piacere mostrarsi.
Come potevo ricambiare?
Ci ho pensato a lungo, e ho deciso di restituire loro quella fiducia raccontando (forse per la prima volta) di me, della mia storia, della mia ferita.
Ecco cosa mi ha consegnato l’esperienza del carcere: la possibilità di inabissarmi nelle profondità di me stessa.
Una verità nuda e cruda. Senza fronzoli, senza giri di parole.
Dovevo scendere da quella cattedra da cui corro il rischio di ergermi.
Nel luogo che per antonomasia priva ciascuno della libertà, io ho sperimentato tra me e loro la possibilità di abbassare le difese. E non sentirci magari totalmente liberi, ma almeno noi stessi.
Perché abbiamo tutti bisogno di guardarci dentro senza compiacimento, in maniera onesta.

L’incontro con i detenuti mi ha confermato nell’idea che non abbiamo bisogno di vendetta, ma di giustizia. Tra cicatrici, tatuaggi, scarpe senza lacci, sorrisi sbiaditi ho ricordato che luci e ombre appartengono a ognuno di noi, che non esistono buoni o cattivi (ma azioni tali), che dobbiamo imparare a convivere con noi stessi accogliendo anche le parti più oscure di noi. Che non esiste una storia unica e che ci sono confini labilissimi che si possono superare. Che abbiamo il dovere di rieducare, non accontentarci di punire perché la responsabilità della società e dell’individuo si gioca sia prima che dopo il carcere. Che “l’altro sono io” o perlomeno potrei esserlo, come canta Niccolò Fabi.

Uno di loro, M., mi ha chiesto di raccontare all’esterno quello che accade, di poter essere la loro voce, il loro tramite tra la cella e il mondo.
Io ho voluto consegnare loro una delle immagini per me più care. L’idea che, in fondo, l’educazione sia lasciare nell’altro un “buon ricordo”. Perché quel ricordo nessuno potrà mai togliercelo e a quel ricordo potremo sempre tornare. Anche nella disperazione di una cella spoglia, anche quando ci sentiamo impotenti.
Certo la mia voce sarà solo una delle tante nel frastuono, dimenticata in un secondo.
Ma loro, ne sono certa, continueranno ad essere per me anime passate accanto che hanno toccato la mia.
Un varco dentro me.

Che siano per me, e per tutti noi, coltello.

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