Dire Uomo

26 Feb 2024

Laura Ciccioni, tirocinante di VolontaRomagna, ha incontrato Vincenzo Vannoni, presidente dell’associazione Dire Uomo, un’organizzazione che si occupa degli uomini maltrattanti per offrire una nuova prospettiva sul tema della violenza di genere.

Seguendo i casi di femminicidio sempre più recenti ho fatto una riflessione interessante: cosa spinge gli uomini a essere violenti con le loro mogli o le loro compagne? Com’è possibile che i vari Filippo Turetta e Alessandro Impagnatiello, per citare i fatti di cronaca più recenti, possano commettere gesti tanto atroci? Ne parlo con Vincenzo Vannoni, psicologo, psicoterapeuta e presidente dell’associazione Dire Uomo, centro di ascolto per uomini maltrattanti che ci offre la possibilità di affrontare il problema della violenza di genere dal punto di vista maschile.

Com’è nata l’associazione Dire Uomo? Può raccontarci la sua storia?

Era il 2017. A Rimini erano successi dei fatti drammatici, che avevano scosso la comunità, come, ad esempio, il caso di Gessica Notaro.  In città c’era già un centro antiviolenza per le donne, ma mancava qualcosa che si rivolgesse agli uomini, per questo io e qualche altro collega psicologo abbiamo deciso di fondare l’associazione.  Abbiamo avuto qualche finanziamento e, piano piano si sono avvicinati una trentina di uomini maltrattanti.  Il pensiero di fondo di tutti i centri come questo è che è improprio dire “uomini violenti”, sarebbe più corretto parlare di “comportamenti violenti” che possono essere modificati.

La frase simbolo dell’associazione è: “La violenza di genere colpisce le donne, ma è un problema degli uomini”. In che modo cercate di affrontare questo problema?

Questa frase è un cambio di prospettiva fondamentale: la violenza è subita dalle donne, ma viene fatta dagli uomini.  Lavorando con loro abbiamo la possibilità di cambiare quei comportamenti violenti che hanno nei confronti delle compagne o delle mogli. L’obiettivo è evitare che si verifichino agiti violenti o che tali comportamenti abbiano delle recidive. È un lavoro che interviene sulla prevenzione. Cerchiamo di creare un punto d’ascolto, di aiutarli a capire il perché dei loro comportamenti, facendoli assumere tutte le responsabilità del caso e la consapevolezza delle conseguenze che ne derivano, spesso devastanti. È un ascolto alla storia della persona che tiene comunque sempre il centro dell’attenzione sui comportamenti e gli agiti violenti.

L’ uomo maltrattante corrisponde a un profilo sociale ben preciso?

È difficile capire bene chi sia l’uomo maltrattante. Non corrisponde a un profilo o a un certo status, paradossalmente la violenza è molto democratica e trasversale. In molti casi, ad esserlo sono le persone più insospettabili, che si presentano in modo cortese e gentile nelle relazioni sociali..

Quando si sente parlare di violenza di genere, solitamente si è concentrati sulla vittima, che nella maggior parte dei casi è donna. Da dove nasce l’esigenza di guardare il problema da un’altra prospettiva, quella maschile?

Nasce dal fatto che l’autore della violenza è l’uomo.  C’è quel momento in cui in una relazione, in qualsiasi relazione, possono esserci momenti di conflittualità e di rabbia.  La situazione in cui si va “oltre” è quando si verifica una sorta di abuso, di sopraffazione dell’altro. Alcuni uomini non sono capaci di riconoscere e gestire questo sentimento, che trasformano immediatamente in azioni violente senza comprenderne la gravità. Abbiamo poi tutta una cultura maschilista e patriarcale, che nel corso del tempo, nelle relazioni uomo-donna, ha sempre attribuito molto più potere all’uomo. Per molti di loro ancora le donne sono viste come oggetti in loro possesso. Trasformare questa cultura è un processo lungo. Comunque bisogna lavorare con gli uomini e per farlo in maniera efficace bisogna collaborare tutti insieme, in ogni settore.

Che cosa spinge a maltrattare la propria compagna, la persona a noi più cara?

Sono almeno tre i livelli da considerare: il primo è l’influenza culturale, che considera le donne come oggetti, per cui il compagno le vede come persone con meno diritti, che è possibile schiacciare, offendere e maltrattare; poi ci sono le influenze educative, che partono dal vissuto e dalle esperienze di ognuno e infine l’incapacità degli uomini di gestire la propria rabbia, di riconoscere e gestire i propri vissuti emotivi.

Quali sono, generalmente, le reazioni degli uomini che si rivolgono a voi? Si mostrano subito disponibili al cambiamento?

Bisogna lavorare molto. Nella maggior parte dei casi semplificano o minimizzano il problema, un atteggiamento costante in loro. Spesso faticano anche a parlare con consapevolezza di quanto commesso. Si tratta generalmente di un percorso abbastanza lungo.
Alcuni uomini arrivano in associazione spontaneamente, non hanno una denuncia da parte della partner, ma si accorgono che nella loro relazione qualcosa non va, sentono che potrebbero perdere il controllo e sfociare nella violenza: con questi è più facile cercare un dialogo, un confronto. Altri invece si presentano con la prescrizione del tribunale a seguire un percorso presso l’associazione come condizione per accedere alle pene alternative. Questi uomini si sentono maggiormente obbligati, ma, incontrandoli ogni settimana, speriamo sempre che un cambiamento sia possibile.

C’è un aneddoto che, in tanti anni di esperienza, l’ha particolarmente colpita?

Non parlerei di un caso specifico, c’è ne sarebbero tanti.  La cosa che rimane particolarmente impressa è la fatica che fanno gli utenti ad ammettere e riconoscere i loro agiti. La responsabilità, a sentir loro, è sempre dell’altro: ad esempio la loro compagna che non si è comportata bene o le forze dell’ordine che hanno esagerato nel verbalizzare l’accaduto.

Quali sono le strategie da mettere in atto per prevenire e cercare di eliminare questo fenomeno?

È un discorso complesso: il lavoro svolto da realtà come i centri antiviolenza rivolti alle donne o la nostra associazione fa in modo che di questi fenomeni si continui a parlare.  È fondamentale, comunque, che con i media e tutti gli altri strumenti che abbiamo a disposizione si faccia tanta campagna di prevenzione.

Quali sono i progetti che realizzate per sensibilizzare sul tema, ad esempio nelle scuole o nelle carceri?

Nelle scuole è fondamentale entrare. Uno dei nostri obiettivi principali è la discussione con i giovani.  Poi facciamo anche eventi rivolti alla cittadinanza, ad esempio cineforum e conferenze. Per quanto riguarda il carcere abbiamo un progetto attivo da alcuni anni con la Casa Circondariale di Rimini, dove incontriamo persone che hanno commesso reati legati alla violenza di genere.

Quali sono i vostri obiettivi futuri?

Mantenere l’attività in carcere, continuare l’opera di sensibilizzazione e soprattutto fare tanta formazione sul tema, a tutte le categorie professionali coinvolte a vario titolo nel contrasto alla violenza di genere o che lo desiderino. È importante, perché solo tutti insieme possiamo cambiare le cose.

Si conclude qui questa chiacchierata, molto stimolante e ricca di spunti di riflessione su un tema delicato e quanto mai attuale.

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