L’Ecomuseo delle erbe palustri
Per la nostrea rubrica #unlunedìdavolontari proproniamo il nostro pezzo uscito sull’ultimo numero di Vdossier
Tutto nasce da delle tendine. Siamo nel comune di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, una giovane sposa, Maria Rosa Bagnari, si innamora delle sturul (in dialetto romagnolo), stuoiette realizzate in giunco pungente per oscurare le finestre. Le scopre nel laboratorio del suocero, Veleriano Barangani, l’artigiano più competente del paese. Lui cerca di dissuaderla: “compra le veneziane di plastica” le dice “queste non si fanno più”. Ma la sposa non demorde e il marito per accontentarla compra un intero camion di giunco pungente mentre lei si fa riprodurre un telaio dal falegname per non rovinare quello originale di una signora, con i segni del tempo. La zia del marito le insegna ad usarlo e insieme realizzano le sue tendine. Dopo di lei, altre le vogliono tanto che il camion di giunco pungente si esaurisce. Così Maria Rosa, si addentra nelle meraviglie e nei misteri del laboratorio artigianale di Valeriano, fatto di strumenti difficili da decifrare, oggetti strani ma che nascondevano un antico sapere, che risale al 1300: quello di Villanova delle Capanne.
Inizia così la storia di uno dei primi ecomusei d’Italia, negli anni Ottanta, nel comune di Bagnacavallo. Cosa sia effettivamente un ecomuseo è difficile da dire. Sono tante le definizioni che si sono susseguite dagli anni Settanta quando se ne iniziò a parlare in Francia. Una delle voci più autorevoli sul tema è sicuramente quella di Georges Henri Riviére, il museologo che per primo ebbe l’intuizione di un museo di comunità. Per lui l’ecomuseo è uno specchio in cui la popolazione si guarda riconoscendosi nella sua storia e tradizione, qualcosa che rappresenta il territorio e i suoi abitanti nel tempo e nello spazio: è vita vissuta che si trasmette nel futuro, identificando quella popolazione nella sua intimità.
Per Maria Rosa, gli ecomusei non si possono definire perché sono tutti molto diversi. Ma un concetto è importante: devono essere un progetto partecipativo che sul territorio recupera la cultura economica e paesaggistica locale per continuare a fare economia.
“In Italia – spiega – non esiste ancora un riconoscimento ministeriale. Solo in 14 regioni si è legiferato sul tema e in alcune si è anche creato un osservatorio. La differenza è la ricaduta sul territorio: dove la rete è funzionante si riesce a lavorare sulla valorizzazione delle peculiarità locali e su un turismo che crea cultura e orgoglio nei suoi abitanti, amministratori e ospiti”.
A Villanova, si insediarono i primi abitanti che iniziarono a utilizzare le morbide e resistenti erbe delle acque circostanti. Qui la storia della popolazione si è intrecciata, come nei manufatti che produce, con 5 erbe: canna, stiancia, giunco lacustre, carice e giunco pungente. Una comunità di raccoglitori creativi, in cui il senso estetico femminile, ha dato origine e continuità a una vasta gamma di manufatti con trame particolari e diverse arricchite dalla creatività individuale. L’economia del borgo ha creato pari opportunità, dando un’occupazione non solo alle donne ma anche a uomini, anziani e bambini. Tutto si produceva a partire da ciò che il territorio offriva: dalle abitazioni, capan (capanno), cavana (ricovero per barche); agli arredi e utensili per uso domestico, spazon (scopa), scarana (sedia), sportla (sporta), fiasch (fiasco), cosp (zoccoli), pianel (ciabatte).
La vita seguiva il ritmo degli sfalci stagionali, in un ciclo continuo nel rinnovarsi dell’ecosistema vallivo, creando un’economia circolare in piena armonia con la natura. Tanto che Villanova è diventata nota anche oltre confine con l’esportazione dei suoi prodotti in vari paesi d’Europa e la partecipazione alle più importanti fiere internazionali già alla fine del 1800.
“L’Ecomuseo delle Erbe Palustri, a Villanova di Bagnacavallo, è l’idea giusta nel luogo giusto – continua Maria Rosa –, inizia come progetto partecipativo coinvolgendo una cinquantina di abitanti che ancora conservavano il bagaglio inalterato dell’intreccio delle erbe di valle. Un accurato lavoro di ricerca e di recupero che inizia nel 1985, sull’arte manuale del paese per riportare alla luce la produzione classica del periodo 1850-1950. Il paese di Villanova aveva fatto cadere nell’oblio tutto il patrimonio materiale e immateriale che avrebbe dovuto essere l’orgoglio della comunità. In quel periodo in bassa Romagna tutto ciò era veramente difficile. L’allora sindaco Giancarlo Fenati intuì l’importanza di questo progetto che definì ‘una proposta doverosa d’ascolto’”.
Primo informatore dell’ecomuseo non poteva che essere proprio il suocero di Maria Rosa, Valeriano Barangani. Come lei stessa ammette, è stata una fortuna poter buttare giù la traccia del museo proprio con lui. Dopo quest’ultimo, il villanovese Amleto Marescotti, padre del noto attore Ivano.
Inizialmente ospitato in un palazzo di fine Ottocento nella piazza centrale di Villanova, nel 2013, l’Ecomuseo delle Erbe Palustri si è traferito in via Ungaretti, in un ex edificio scolastico degli anni Settanta ristrutturato e sottoposto a un radicale intervento di adeguamento, che oggi offre una superficie espositiva di circa 1.150 metri quadri e uno spazio circostante di circa 3.000 metri, dove sono state riprodotte le varie tipologie di capanne classiche, arte dei maestri capannai del ravennate.
La visita parte da un audiovisivo, per passare nella stanza laboratorio. Da qui si prosegue addentrandosi sempre di più nelle peculiarità di questa terra, dove la vita degli abitanti era strettamente connessa con quella dell’ambiente esterno. Cinque sezioni sono poi dedicate al ciclo delle 5 erbe primarie. C’è infine la locanda dell’allegra mutanda dove potersi rifocillare con i prodotti del territorio, che prende il nome dalla raccolta di antiche braghe, mostra rimasta perenne proprio per richiesta dei visitatori. Qui al momento è possibile ammirare anche le antiche lettere scarlatte: le inziali con cui ogni famiglia usava marchiare i propri corredi, un’attività in cui già i più piccoli erano coinvolti, che rimanda la memoria di ognuno di noi alle tele delle nostre nonne segnate dalle loro lettere.
“Mi piace usare il termine ‘spaesati’– conclude Maria Rosa con rammarico –: abbiamo ucciso la sostanza del paese. Prima di tutto culturale ma anche partecipativa e sociale ecco perché come ecomuseo abbiamo tentato di ricordare un po’ di questa Romagna dimenticata. Si è persa gran parte della nostra storia autentica e con questa l’identità e la capacità di fare cultura ed economia. È un patrimonio sottovalutato e un grave danno per il nostro entroterra a rischio di spopolamento. Si trasmette cultura se l’hai recuperata, ad esempio stiamo perdendo il dialetto, che i piccoli capiscono ma non parlano più. Fra le tane cose dimenticate in bassa Romagna è giusto citare anche i balli popolari come la tresca e il trescone che non possono essere sostituiti dal liscio. Anche gli eventi paesani purtroppo non ripropongono più i caratteri identitari e le tradizioni popolari impregnate nel passato di elementi sacri, come ad esempio l’acqua di San Giovanni per diventare belli, rito praticato dai bambini che andavano a recuperare l’acqua di sette pozzi e a raccogliere i fiori di 7 giardini aspettando la rugiada fantastica della notte di San Giovanni il 24 giugno, con le sue forme di galateo nel dono dell’acqua tonica di rose alle persone care”.
Maria Rosa è un vero fiume in piena, inarrestabile nella carrellata di storie di una Romagna ai più sconosciuta, ma ricca e ingegnosa. Tra le tradizioni recuperate dall’ecomuseo, anche il presepe di patate con le carte da briscola, ideato grazie alla capacità creativa dei bambini che, non avendo la possibilità di allestire il presepe con le classiche statuine, si adoperavano nel realizzare i personaggi di patate rivestiti di foglie, mettendo a guardia della capanna del bambin Gesù le carte del fante e del cavallo di spade e di bastoni.
Maria Rosa ricorda anche le tante figure fantastiche dell’immaginario romagnolo. La sua preferita è Mazapégual, il folletto malevole e dispettoso delle campagne, che mette in disordine la cucina, nasconde le cose e intreccia le code delle mucche nelle stalle. E poi la Piligrèna che non ha nulla da invidiare alle storie di Halloween. Vestita con il tabarro scuro, o caparela, il classico mantello portato tanto nell’ambiente rurale quanto indossato da notai e contabili.
Uno dei momenti più belli riportati da Maria Rosa nel suo racconto è il trebbo o veglia serale. Le abitazioni, non solo dimore ma anche luoghi di lavoro, erano disposte in borgate a pettine lungo la via che collegava Bagnacavallo a Mezzano in sò e in zò (in su e in giù) verso l’argine del fiume Lamone. È facile immaginare donne e uomini che la sera si attardavano sulla soglia mentre intrecciavano le corde costruendo cesti e sporte lungo le vie del paese. Un quadro che in un qualche modo crea un’istantanea del senso di socialità, partecipazione, economia circolare che l’Ecomuseo delle Erbe Palustri oggi vuole recuperare e divulgare.
Va da sé che, tra le tante attività proposte dall’associazione insieme all’apporto dei volontari, la maggior parte sono rivolte alle scuole, per trasmettere ai bambini il senso dell’autentico e contrastare un mondo dove “sono immersi nella finzione”. I piccoli studenti sono coinvolti in giochi della tradizione contadina, nella riscoperta dei miti e leggende romagnole e nell’apprendimento della tecnica dell’intreccio. Quello su cui si punta è indubbiamente lo stimolare la loro creatività e manualità.
L’Ecomuseo è un museo civico inserito nei servizi culturali del Comune di Bagnacavallo (Ravenna) ed è aperto dal martedì alla domenica anche su appuntamento.
Per informazioni: tel. 0545 280920 – erbepalustri.associazione@gmail.com